Altri esempi di social risk

Di cosa sia il social risk avevo già parlato, ma recentemente sono emersi due eventi che hanno evidenziato sia l’attualità della questione sia soprattutto i rischi reali che si corrono sottovalutando l’uso di questi strumenti.

Caso vuole che siano coinvolte le due principali aziende di fast food del mondo.

Il primo è senza dubbio quello successo a Burger King.

L’account twitter della società è stato violato ed è stato modificato per somigliare a McDonald’s, aggiungendo ovviamente un bel po’ di tweet offensivi…

Fonte abc News

Fonte abc News

Non si hanno i dettagli dell’attacco, ma sicuramente è dovuto ad una scarsa sicurezza. Di Twitter in primis (e ne ho già parlato proprio qualche giorno fa), che non dispone di una autenticazione a due fattori, ma soprattutto di chi gestisce il profilo, che ha impostato una password troppo semplice, e soprattutto non ha monitorato quello che stava succedendo.

Sicuramente non è stato un momento piacevole per la struttura di PR dell’azienda, ma la cosa grave è che l’incidente è nato da una palese sottovalutazione della sicurezza di certi strumenti.

L’altro caso lo riferisce Sophos, e riguarda (casualità) il concorrente: McDonald’s.
Quello che è successo stavolta è che è girato su Facebook una foto fake in cui un non meglio identificato ristorante McD esponeva un cartello molto razzista:

Fonte Sophos Naked Security

Fonte Sophos Naked Security

L’immagine ha avuto quarantamila condivisioni. Era fake perché il numero verde riportato sotto non era di McDonald’s ma addirittura dell’altro concorrente KFC.

Questo sicuramente mostra come su Facebook sia facile far girare delle bufale, ma soprattutto indica come sia necessario monitorare la presenza sui social newtork (tramite sentiment analysis), al fine di prevenire questo genere di eventi, e rispondere prontamente.

In questo caso McDonald’s non aveva ovviamente colpe, non essendo stata attaccata direttamente.
Ma senza un’accurato monitoraggio potrebbe subire un incidente ancora più grave, ad esempio perché la foto falsa potrebbe provocare un attacco pesante da parte di gruppi di hacktivist.

Bye!

Qualche nota sull’attacco a Twitter

Febbraio si è aperto con una gran brutta storia.

Ben riassunta da Paolo Passeri sul suo Hackmageddon con il titolo di The Party Is Not Over! 250,000 Twitter accounts compromisedche riprende il post del blog ufficiale di Twitter dal titolo Keeping our users secure.

Twitter Keeping our users secure

Il succo della vicenda è quello che racconta Twitter stesso: hanno riscontrato tentativi di accesso non autorizzato a circa 250mila utenze.

L’attacco, o per lo meno uno dei tentativi di attacco, è stato bloccato. In via precauzionale Twitter ha resettato tutte le password degli account oggetto dell’attacco, informando gli utenti dell’operazione.

Non è la prima volta che parlo di Twitter in questo blog, lo avevo fatto perché qualche tempo fa pubblicarono un post interessante su come gestire la sicurezza delle proprie password.

La cosa spiacevole, e che purtroppo Twitter non è andata molto oltre la gestione delle password.

Sì perché mentre il contenuto del post, comprensibilmente molto vago, è comunque una prima descrizione di qualcosa che non conoscono bene, il titolo per me è pessimo.

Perché dico questo? Perché l’attacco, che può naturalmente accadere a chiunque, ha svelato in realtà come Twitter non faccia in realtà granché per far stare sicuri i suoi utenti. Sopratutto non lo fa rispetto agli altri social network.

Andiamo con ordine. Essendo utente di Twitter da più di sei anni, e avendo l’attacco colpito i primi utenti del servizio, anche al mio @glamis è arrivato il reset della password.

Della password sì, ma delle sessioni aperte no. E questo è il primo punto.

Ed è importante perché pare che Twitter abbia resettato tutte le password “sospette”, ma solo le sessioni di chi riteneva più a rischio. Questo perché pare che siano state sottratte oltre alle password (cifrate, quindi poco utili), anche i token di sessione di alcuni utenti. Da qui la necessità di resettare tutto il resettabile.

Perfettamente comprensibile.

Ora io ho ovviamente cambiato la mia password, e qui ho scoperto un altro problema delle procedure di Twitter: cambiando la password le sessioni (e i token) attivi non scadono.

Mi aspettavo infatti di rimettere la password su tutti i vari iCosi che ho in giro, ma così non è stato. Tutto ha continuato a funzionare correttamente. Molto molto male. Requisito fondamentale affinché abbia realmente valore un cambio password è proprio la decadenza di tutte le sessioni attive.

Anche perché che altro modo ho io per buttare fuori uno che, ad esempio, mi ha rubato l’iPhone? Nessuno, perché Twitter non ha una funzione di reset delle sessioni.

E non parlo di cose fuori dal mondo, parlo di funzioni di sicurezza basilari che Google e Facebook hanno attivato già da molto tempo. E sono molto utili, per garantire la sicurezza ai propri utenti.

E vi prego non venitemi a dire, come dice il Guardian, che non lo fanno perché

The reason why third-party clients will still let you tweet is that Twitter doesn’t let them use your password. Instead, it uses “tokens” which are issued to the third-party programs, and authorise them to send tweets to Twitter’s database for redistribution to followers. The tokens weren’t revoked as part of the password reset; doing that would have meant that you’d have had to re-authorise all your apps, and for some apps Twitter has only made a limited number of tokens available. So that would have hurt both users and app developers.

Ma non è tutto. Certamente era una cosa nota già da prima, ma con questo attacco è tornato ancora più evidente il fatto che Twitter non consenta un’autenticazione a due fattori. Cosa che, non mi stupisce, Google e Facebook fanno da tempo (e che voi usate, vero….?)

Su questo ultimo punto si “combatteva” già da un po’, ma la cosa ha preso come dicevo ancora più forza e si è diffuso subito l’hashtag #iwantmy2fa

Speriamo che qualcuno ascolti, anche perché, come ricorda sempre Paolo, Twitter non è un caso isolato.

Prima di lui fu attaccato LinkedIn che, coincidenze, non ha né un’autenticazione a due fattori, né un controllo ed eventuale reset delle sessioni attive.

Dagli errori si deve sempre imparare, stavolta è proprio il caso di farlo.

Bye!

Ancora su signorotti, vassalli e cloud

Lo scorso articolo, Se la sicurezza la garantisce il signorotto, ha iniziato un interessante dibattito, in particolare sul gruppo LinkedIn Italian Security Professonial (gruppo che consiglio a tutti gli addetti ai lavori perché ci sono sempre contenuti e discussioni molto interessanti).

In ogni caso vorrei chiarire qualche altro punto emerso dall’analisi che avevo fatto, continuando a leggere quello che hanno scritto Schneier e Morozov.

Sicuramente la filter bubble di un motore di ricerca fa subito storcere il naso, e contribuisce ad inquadrare il problema in tutta la sua gravità. Se non altro perché è una cosa che impatta immediatamente sulla nostra vita, visto che cerchiamo le cose su Google diverse volte al giorno.

Però il discorso, in particolare quello di Schneier è un po’ più ampio, e riguarda anche i servizi che i vari signorotti erogano “gratis”. Spesso sottovalutati, o usati marginalmente, sono poi in realtà il modo più forte che i provider hanno per applicare le loro regole ai loro clienti, sia come funzionalità che, soprattutto, come rischi di perdite di dati, lock-in e tutto quanto il resto.

Quindi i servizi cloud sono da evitare come la peste? Direi di no, come in tutte le cose c’è sempre un lato positivo, o in questo caso utile. Basta ovviamente ragionare e avere consapevolezza di dove si vanno a mettere i propri dati.

Continua infatti Bruce:

Feudalism is good for the individual, for small startups, and for medium-sized businesses that can’t afford to hire their own in-house or specialized expertise. Being a vassal has its advantages, after all.

Ed ha ragione. Non dimentichiamo che la forza di tante piccole startup, o aziende che tentano di aggredire nuovi settori di mercato, è proprio quella di azzerare (o quasi) i costi dei servizi IT. Perché con un abbonamento light o addirittura free a Google Apps, Salesforce, Dropbox o similari, si hanno comunque servizi efficienti, disponibili ovunque e, soprattutto, rapidi.

La rapidità di risposta e di azione è infatti la chiave del successo per una startup, e i servizi cloud possono supportarla in maniera eccellente. Se n’è accorto anche Forbes, che l’anno scorso nell’articolo How Cloud Computing is Fueling the Next Startup Boom scrive:

There was a time when launching a serious startup required serious capital. Seed money was required for hiring talent, marketing and promotion, office space, and for technology to make it all happen. The technology portion of the equation is suddenly diminishing, dramatically. Thanks to cloud computing and social networking resources, it now costs virtually pennies to secure and get the infrastructure needed up and running to get a new venture off the ground.

Ecco, questo è il punto di forza dei signorotti. E mi sembra chiaro che alla fine i conti non possono che essere a loro vantaggio, proprio perché gestire gli stessi servizi in proprio è fuori dal budget di una startup. Senza contare che oltre a soldi, un’infrastruttura IT in grado di supportare una grossa azienda è lenta nell’adeguarsi ai cambiamenti di mercato, spesso dipende da tante diverse componenti aziendali in contrasto tra loro e per questo non sempre è di ausilio al business, anzi…

Ovvio che, tornando al tema principale, non tutto è rose e fiori. Scheier dice appunto che:

Yet feudal security isn’t without its risks.

E i rischi sono proprio quelli che vanno considerati per primi e come quelli più importanti, perché visto che non c’è trattativa col signorotto, lui fa come vuole per “proteggere” i propri vassalli, anche contro la loro volontà.

Schneier infatti cita il caso in cui Amazon ha segato l’account Kindle di un cliente per un problema di residenza, o la brutta storia di come Matt Honan fu colpito da cybercriminali che hanno proprio sfruttato le vulnerabilità incrociate dei vari signorotti.

‬The very four digits that Amazon considers unimportant enough to display in the clear on the Web are precisely the same ones that Apple considers secure enough to perform identity verification.‪

Proprio come il sistema feudale, l’unico proprietario di tutto (prima erano le nostre vite, ora sono i nostri dati) è il signorotto. Che agisce ovviamente nel suo unico interesse, a maggior ragione perché ora queste sono entità commerciali, quindi lo scopo non è tanto allargarsi su quello o quel terreno per arrivare alla corona.

Lo scopo che loro hanno è far soldi.

E magari se gli serve possono anche venderli, i loro vassalli. Bruce cita un paio di casi ma io mi rifaccio ad un bell’articolo di Matteo Flora, Non usate Google se siete una ONG, in cui fa due osservazioni non di poco conto:

  • Google collabora nel 95% dei casi con le autorità americane, ma solo nel 60% con quelle italiane
  • Se avete le vostre mail su Google sappiate che la tutela italiana (con ordine di un magistrato) non conta nulla e che potreste essere sottoposti a controllo senza che nemmeno lo sappiate

Ecco queste sono cose da sapere, prima di affidarsi alle amorevoli cure del signorotto. Sono discorsi molto complessi, lo ammetto, però sono necessari a coltivare una consapevolezza nell’uso degli strumenti (chiamiamoli cloud, web2.0 o come volete).

Perché si fa presto a fare un bel filmato di marketing e mostrare come è facile usare questo o quel servizio, solo che dopo possono insorgere insidie inaspettate, sulle quali la vostra ragione non verrà quasi mai considerata valida.

Molte cose non si possono conoscere a priori certo, Morozov da come improbabile la pubblicazione di certi metodi di filtraggio o di certi algoritmi, ma si augura che vengano almeno mostrati ai chi è incaricato di arbitrare la situazione:

Silicon Valley wouldn’t have to disclose its proprietary algorithms, only share them with the auditors. A drastic measure? Perhaps. But it’s one that is proportional to the growing clout technology companies have in reshaping not only our economy but also our culture.

Mentre la chiosa finale di Schneier è un po’ più drastica, soprattutto sul ruolo di controllo e bilanciamento delle forze che dovrebbero avere i governi in questo campo (che poi però sono i primi a cui fa comodo una corsia preferenziale di controllo sui contenuti ospitati dai signorotti):

But these days, government has largely abdicated its role in cyberspace, and the result is a return to the feudal relationships of yore.

Schneier conclude ripetendo che la sicurezza è un trade-off. Chi lavora in questo settore lo sa da sempre, come sa che non esiste un sistema 100% sicuro. Ed è per questo che molte aziende non firmano contratti con provider di questo tipo a cuor leggero, preferendo magari sistemi sviluppati in casa, sui cui si ha il pieno controllo. Anche a costo di sacrificare soldi e velocità nel seguire i flussi di business.

Questione di scelte certo. Ma fare una scelta presuppone avere gli strumenti, le conoscenze e la consapevolezza di farle.

Non tutti ce l’hanno, soprattutto in questi tempi in cui tutto è a disposizione “gratis”.

Io penso comunque che si sta sviluppando una consapevolezza di questo tipo, un awareness rispetto a chi ci offre qualcosa facendoci vedere solo quanto è bella e armata la cittadella fortificata, quanto sono organizzate le guardie e quanto è ricco il mercato dentro. Senza dirci però che, una volta dentro, non possiamo più uscire.

In fondo una parte di questa consapevolezza di come stanno le cose, buona o cattiva che sia, si chiama hacktivistm.

Bye!

Se la sicurezza la garantisce il signorotto…

… poi decide lui cosa fare e cosa non fare.

Recentemente sono usciti due articoli che analizzano le modalità con cui viene erogata oggi la sicurezza sul web, e la riconducono ad un sistema medievale di gestione.

Il primo articolo è di Bruce Schneier, e si intitola appunto Feudal Security.
Il secondo è di un altro osservatore molto attento della rete e dei suoi meccanismi, Evgeny Morozov, e tratta più o meno lo stesso concetto ma focalizzato più sui rischi reali, si intitola You Can’t Say That on the Internet.

Andiamo con ordine e cominciamo con il pezzo di Schneier.

Fondamentalmente lui paragona lo stato attuale della sicurezza in rete con quello che succedeva nel medioevo. Cioè che le persone, i vassalli, per essere sicuri in un tempo e luogo che presentava altissimi pericoli, si alleavano al signorotto locale e andavano nella sua cittadella, o territorio a seconda della forza.

La cittadella era ben chiusa da mura resistenti e difesa da corpi di guardia armati fino ai denti, dentro tutto era tranquillo e ognuno poteva vivere la sua vita senza preoccuparsi di briganti, assassini, ladri o altro (almeno fino alla prossima guerra).

Feudalism provides security. Classical medieval feudalism depended on overlapping, complex, hierarchical relationships. There were oaths and obligations: a series of rights and privileges. A critical aspect of this system was protection: vassals would pledge their allegiance to a lord, and in return, that lord would protect them from harm.

Già vediamo qualcosa che non ci piace. I vassalli infatti dovevano giurare alleanza al signorotto che gli offriva protezione. Dovevano sottostare ai suoi obblighi ed alle sue regole.

Certo, in cambio avevano una sicurezza imbattibile per l’epoca. Ma avevano scelta? No.
Non potevano fare a meno di porsi gerarchicamente sotto al signorotto, e accettare le sue regole e i suoi obblighi senza fiatare. Perché è lui che decide. Dai vassalli in giù ci sono solo sottoposti, che non hanno nessun titolo per parlare o decidere alcunché.

Questo modello, trasportato pari pari alla situazione attuale, è rimasto pressoché immutato.

Some of us have pledged our allegiance to Google: We have Gmail accounts, we use Google Calendar and Google Docs, and we have Android phones. Others have pledged allegiance to Apple: We have Macintosh laptops, iPhones, and iPads; and we let iCloud automatically synchronize and back up everything. Still others of us let Microsoft do it all. Or we buy our music and e-books from Amazon, which keeps records of what we own and allows downloading to a Kindle, computer, or phone. Some of us have pretty much abandoned e-mail altogether … for Facebook.

Tutti sono diventati vassalli di qualche signorotto, tutti permettono che lui decida cosa possono o non possono usare, scaricare, leggere e sentire. Lui decide come erogare i servizi e come cambiarli a suo piacimento. Solo lui conosce e applica le sue regole e gli obblighi verso gli utenti. Non c’è confronto, non c’è democrazia, non c’è scelta.

In cambio, tutti hanno sicurezza, affidabilità, servizi “gratuiti” ovunque nel mondo.

Ma una volta non era così, una volta la sicurezza era scelta e applicata dall’utente.

Traditional computer security centered around users. Users had to purchase and install anti-virus software and firewalls, ensure their operating system and network were configured properly, update their software, and generally manage their own security.

Questo modello non è più attuale secondo Schneier, il mondo è diviso in due grossi filoni di signorotti che offrono servizi, e relativi vassalli:

  1. i dispositivi che portiamo con noi, di cui il signorotto ha pieno controllo, sia hardware che software (Apple, Amazon);
  2. i servizi online che tengono i nostri dati, senza che noi sappiamo dove o come (Google, Yahoo!, Dropbox).

In pratica abbiamo delegato il controllo sui nostri dati (e anche su un pezzo delle nostre vite) ad altri. Siamo il vassallo che si affida anima e corpo al signorotto, che compra il suo hardware proprietario, che non può toccare il suo software, che non sa come funzionano i suoi servizi. E lì vive la propria vita affidando ad altri la propria sicurezza.

E qui entra in campo l’analisi fatta da Morozov.
Che spiega in cosa consiste questa delega in bianco. Consiste nel fatto che il signorotto fa quello che vuole per proteggerci.

Sembra scontato, ma non lo è quando poi ci troviamo di fronte a casi reali.

Apple, too, has strayed from its iconoclastic roots. When Naomi Wolf’s latest book, “Vagina: A New Biography,” went on sale in its iBooks store, Apple turned “Vagina” into “V****a.” After numerous complaints, Apple restored the title, but who knows how many other books are still affected?

The proliferation of the Autocomplete function on popular Web sites is a case in point. Nominally, all it does is complete your search query — on YouTube, on Google, on Amazon — before you’ve finished typing, using an algorithm to predict what you’re most likely typing. A nifty feature — but it, too, reinforces primness.

Chiaro? Gli strumenti che usano i signorotti per proteggerci (Morozov cita Impermium) lo stanno davvero facendo? O stanno forse racchiudendo l’utente in una bolla, una sandbox in cui non può farsi male nessuno, non ci sono rischi né tantomeno pericoli.

Ma solo perché l’utente fa quello che vuole il signorotto. Vede solo quello che decide lui e come lo decide lui. Senza che nessuno possa dire nulla, o decidere più nulla.

Until recently, even the word “bisexual” wouldn’t autocomplete at Google; it’s only this past August that Google, after many complaints, began to autocomplete some, but not all, queries for that term. In 2010, the hacker magazine 2600 published a long blacklist of similar words. While I didn’t verify all 400 of them on Google, a few that I did try — like “swastika” and “Lolita” — failed to autocomplete. Is Nabokov not trending in Mountain View? Alas, these algorithms are not particularly bright: unable to distinguish between Nabokov’s novel and child pornography, they assume you want the latter.

Il signorotto è il nostro guardiano. Lui decide cosa dobbiamo cercare e in che modo e, visto che noi gli abbiamo giurato alleanza, non potremo che non trovare più quello che cerchiamo veramente.

O magari lo troviamo, ma per quanto tempo ancora?
Google potrebbe decidere che la funzione di autocompletamento non è abbastanza sicura per noi. Potrebbe escludere del tutto il risultato dalla ricerca. E non troveremmo mai più Nabokov, come oggi i cinesi non trovano più informazioni sui fatti di piazza Tien An Men.

Ma la Cina è un cattivo regime dittatoriale. Noi no, noi viviamo in democrazia…

Bye!

Aggiornamento: la seconda parte di questo post la trovate qui.

Cos’è e come si gestisce il Social Risk

Questo articolo esce in crosspost con il blog Marketing Consumer, dove lo stesso tema è affrontato dal punto di vista della protezione dell’immagine dell’azienda, e fa parte della serie Spiegare la sicurezza.

Ho recentemente partecipato al Security & Risk Management Summit di Gartner. Tra i vari temi del convegno si è trattato anche di come le aziende debbano sempre di più occuparsi del social risk. Cioè di quanto le discussioni circa l’azienda sui social network possano provocare danni, anche molto gravi, all’immagine, al fatturato e alla sicurezza dell’azienda stessa.

La buona notizia è che ci sono gli strumenti per difendersi, come definire un’efficace social media policy, identificare un responsabile della social compliance e mettere in campo una squadra di marketing d’emergenza.

Questo argomento è particolarmente interessante perché riguarda non solo le strategie di marketing che un’azienda moderna deve mettere in pratica per difendersi, ma anche e soprattutto l’analisi e la prevenzione dei rischi. E, tanto per contestualizzare, il rischio principale di cui stiamo parlando è quello dell’hacktivism.

Sono stati portati diversi esempi, anche con testimonianze dirette di aziende, sui vari aspetti dell’interazione tra una società e il mondo dei social network. Si è passati da sensibilizzare i dipendenti a come proteggere la propria privacy (e di riflesso l’immagine dell’azienda), a come attivare delle policy corrette per gestire un grande evento.

Il caso più emblematico presentato è stato quello del CIO durante le ultime Olimpiadi di Londra, che non solo ha spinto gli atleti ad usare i social network definendo policy opportune (qui il documento dettagliato), ma le ha anche applicate duramente, laddove si siano verificate delle violazioni che potevano compromettere l’immagine delle Olimpiadi.

Quello su cui vorrei focalizzare l’attenzione è tuttavia una problematica molto particolare, ovvero come gestire le emergenze di comunicazione e marketing che possono emergere quando esplode un “incidente” sui social network, e in seguito sulla stampa mainstream.

Partiamo dall’inizio.

È sempre successo che possa arrivare, dall’interno o dall’esterno, un evento che possa nuocere all’immagine dell’azienda o del brand. Magari questo incidente viene poi ripreso dalla stampa e causa problemi o danni gravi per cui deve intervenire il reparto di public relations.

La gravità di questo incidente può aumentare se l’azienda lega molto la sua immagine o le sue azioni a concetti di tipo etico. Ad esempio se siete una compagnia petrolifera che si autodefinisce “green”, e poi vi beccano a trivellare un parco nazionale in Nuova Zelanda, allora la gente potrebbe reagire molto male. E come reazione intendo arrivare a concordare un’azione che possa provocare danno alla sicurezza dell’azienda, ai suoi dati riservati ed all’immagine dell’azienda sul web e sui media. Per esempio con un bel defacement.

Ora questo come fa a peggiorare con i social network? Perché nei gruppi online prima, e nei gruppi di Facebook e similari dopo, si concentra un’enorme quantità di energia. L’energia cresce perché in questi gruppi di persone, anche molto ampi, parlano costantemente del “nemico”. Ne parlano e non vedono l’ora di avercelo davanti. E il nemico può essere la multinazionale petrolifera, se il gruppo è di ambientalisti, o una qualsiasi azienda che ha a che fare con gli animali, se il gruppo è di animalisti, come in seguito.

Questa energia, se scatenata in seguito ad un incidente, provoca una reazione a catena enormemente più potente rispetto al normale flusso di eventi che veniva generato con il semplice intervento della stampa. Perché non dimentichiamocelo, stiamo nel mondo del Web2.0, dello user generated content. E perché le cose che avvengono su internet, oggi, restano lì per sempre.

Ed è proprio questa caratteristica a cambiare le carte in tavola e a richiedere interventi eccezionali e tempestivi.

Esaminiamo quindi un caso reale, citato al convegno, che illustra molto bene la tempistica di questi eventi. E insegna quali sono gli errori da evitare.

Alcuni di voi ricorderanno del negozio Petland di Akron, Ohio.
Petland è una catena in franchising di negozi di animali che puntava ad apparire particolarmente attenta alla cura dedicata ai piccoli amici domestici.

Il 29 luglio del 2009 una dipendente del negozio Petland di Akron  lascia due conigli maschi nella stessa gabbia, violando le politiche aziendali e la mission dell’azienda. Gli animali iniziano a picchiarsi selvaggiamente, tanto che la dipendente è costretta ad annegarli per evitare che muoiano di dolore dalle orribili ferite che si sono provocati. Ma la cosa più grave non è questa squallida e triste vicenda, quanto il fatto che la stessa ragazza posta sul suo profilo Facebook una foto sorridente tenendo gli animali morti come trofeo.

Questo evento scatena una serie di eventi riassunti in questo schema:

Akron Petland Incident Timeline

Fonte: Gartner

Il giorno dopo un amico su Facebook della ragazza segnala la cosa alla Humane Society, e successivamente alla PETA. La PETA chiede chiarimenti a Petland, che non considera adeguatamente la vicenda e non risponde alle richieste dell’organizzazione. Cinque giorni dopo la PETA chiama, utilizzando i social network, tutti i suoi iscritti all’azione e alla protesta contro il negozio di Akron e tutti gli altri negozi Petland degli Stati Uniti.

Otto giorni dopo la pubblicazione della foto Petland chiude il negozio di Akron, licenziando tutti i dipendenti (che passeranno i loro guai personali).
Trovate dettagli sulla vicenda, e la brutta foto della ragazza, sul sito ufficiale PETA.

Questo non è solo un case study molto utile a comprendere la potenza dell’energia racchiusa nei social network, ma anche un esempio dei danni che questo tipo di incidenti può portare ad un’azienda. Sì perché oltre a perdere un negozio, Petland ha avuto al sua reputazione distrutta, con danni che seguono ancora adesso.

Provate a cercare “Petland” su Google Immagini:

Ricerca Petland su Google Immagini

Ancora oggi compare la foto incriminata e la terza immagine, una di quelle più visibili, è di persone con cartelli “Petland uccide i cuccioli“.
Chi si affiderebbe ad un’azienda così, ora?

E tutto questo solo per non essersi accorti di un fatto molto grave, e soprattutto per non aver risposto pubblicamente e tempestivamente. E il motivo è semplice: l’azienda non aveva una social media policy per i dipendenti (la ragazza nemmeno pensava che la sua azione l’avrebbe portata a perdere il lavoro), non effettuava un monitoraggio dell’andamento del brand sulla rete, e non aveva un flusso di gestione della segnalazione proveniente da un gruppo di attivisti.

Questa brutta vicenda si è conclusa qui. Ma se il caso fosse stato ripreso da un gruppo di attivisti hacker, un gruppo anonimo ad esempio. E se questi avessero attivato subito una #op-petland su tutti i network? Ci sarebbero stati defacement sui siti aziendali, furto di informazioni e chissà quante altre cose, magari molto riservate, sarebbero uscite fuori…
E il danno sarebbe stato anche più grave che chiudere un negozio, il rischio era di chiudere tutta la baracca.

Vi chiedere come sia possibile difendersi da questo tipo di incidenti? Non è possibile. Avverranno sempre, e sempre più spesso dato l’enorme numero di persone in tutto il mondo che usa e userà i social network.

È possibile però mitigare il rischio, attraverso un’attenta gestione degli eventi.

Al fine di ottenere questo risultato sono è necessario un cambiamento di mentalità dei settori marketing e public relations dell’azienda, e l’introduzione di due figure fondamentali: il vice presidente della Social Compliance e il team di marketing di emergenza.

Il ruolo del VP Social Compliance (e pongo parecchia attenzione sulla qualifica di vice presidente, indice di quanto alto deve essere il commitment dell’azienda) è quello di definire le social media policy, da applicare sia internamente che esternamente. Definire le politiche di utilizzo vuol dire trasmettere al consumatore, cliente dell’azienda o più in generale un suo stakeholder, un’immagine coerente ed efficace del brand aziendale. Include sia formare degli operatori che alimenteranno i contenuti sui social network utilizzati, sia definire qual è il messaggio che l’azienda vuole trasmettere al suo pubblico e come farlo. Questo implica anche sensibilizzare i dipendenti sull’uso dei social network poiché potenzialmente dannoso per l’immagine dell’azienda. Questo avviene principalmente mostrando come impostare i livelli di privacy e come e cosa dire se non si vuole rischiare di creare danni. Molte persone nemmeno si rendono conto di quanto espongono pubblicamente, e quanto possono danneggiare non solo l’immagine aziendale, ma anche la propria.
Cosa ancora più importante, deve monitorare, mediante tecniche di sentiment analysis, l’andamento del brand aziendale sui gruppi internet. Solo in questo modo potrà identificare prontamente dei potenziali eventi pericolosi per l’immagine aziendale, e potrà definire le strategie di risposta per la gestione del rischio.

Una volta identificato un focolaio di rischio, è necessario che il responsabile della social compliance faccia intervenire il team di marketing d’emergenza, ovvero una squadra di professionisti delle pubbliche relazioni e della pubblicità addestrati a gestire situazioni di questo tipo. Loro interagiranno con le persone che hanno iniziato l’incidente, rispondendogli, indagando su cosa realmente è successo e fornendo il prima possibile una versione ufficiale dell’azienda sulla vicenda in questione.

Solo in questo modo sarà possibile non evitare che si inneschi un incidente, ma gestirlo e ricondurlo subito sotto il controllo dell’azienda. Questo per cercare di dominare il possibile rischio, e non subirlo.

Ovviamente potrebbe non bastare ad evitare una #op-qualcosa. Quindi è essenziale che il responsabile della comunicazione interagisca con il CISO dell’azienda, per allertare tutte le strutture di analisi degli eventi, di intelligence (OSINT, anyone…) e di prevenzione degli attacchi, al fine di monitorare attentamente la situazione.

Perché come dice il motto di questo blog: “l’unica cosa che puoi fare è accorgertene e rispondere”. E aspettarsi una cosa facilita senza dubbio il tutto.

Certamente questo tipo di organizzazione aziendale richiede molte risorse e molta maturità da parte dell’azienda, ma sta diventando praticamente obbligatorio per tutte le aziende esposte, per un motivo o per un altro, all’attenzione di gruppi di attivisti sui social network. Il rischio aumenta ovviamente con l’aumentare della dimensione dell’azienda.

C’è da dire che ci sono diversi documenti da cui trarre ispirazione. Il sito Social Media Governance propone un ben fornito database di policy già definite da alcune delle più grandi aziende del mondo. Basta capire qual è il ramo industriale della propria azienda e si può tranquillamente trarre ispirazione.

Tutte le società dovrebbero inoltre (e molte già lo fanno) usare tecniche di sentiment analysis per monitorare l’andamento dei propri brand sulla rete. Solo che questo monitoraggio va esteso dal semplice controllo delle campagne di marketing, anche alla difesa dell’immagine e degli asset dell’azienda stessa, va ampliato introducendo tecniche di Open Source Intelligence e va costantemente analizzato non solo dal reparto marketing, ma anche da quello della sicurezza IT.

Perché l’importante resta sempre dare una risposta all’utente arrabbiato o deluso. E la risposta deve arrivare il prima possibile, deve essere puntuale e onesta.

Altrimenti non si potrà evitare la deflagrazione dell’energia dei social network, e si rischia di bruciarsi davvero.

Bye!