Autenticazione a due fattori – Perché è importante e come usarla

Trovate qui la traduzione italiana del mio articolo pubblicato sul numero 38 di ClubHACK Magazine.

La storia finora

Recentemente abbiamo letto notizie di due importanti attacchi a due altrettanto importanti social network: Twitter (del quale ho parlato qui) e LinkedIn. Questi attacchi erano mirati a rubare, dai due DB, username, password e addirittura token di sessione degli utenti dei due social network.

Molti hanno fatto correttamente notare che le password trafugate erano cifrate, ma questo non è sufficiente. Molti utenti infatti usano ancora password troppo comuni, in questo modo è semplice risalire, partendo da una password hashata, alla password in chiaro, giusto un giro veloce di rainbow table su un computer rapido.

Questo significa che cifrare le password non è più sufficiente, ma semplicemente perché usare solo le password non è più sufficiente.

Se un attaccante ruba un database di password di Twitter o LinkedIn, significa che può accedere con un gran numero di account, questo principalmente perché questi due social network molto importanti non dispongono di una caratteristica di sicurezza fondamentale: l’autenticazione a due fattori.

Questa caratteristica è davvero fondamentale perché username e password sono troppo deboli, troppo facilmente rubabili, e addirittura troppo facilmente indovinabili, anche senza essere hacker esperti.

Così è importante che quando ci si connette ad un servizio web, soprattutto un social network che tratta nostri dati molto importanti, bisogna usare non solamente qualcosa che noi sappiamo (come la password) ma anche qualcosa che si possiede.

Questo tipo di caratteristica tipicamente funziona aggiungendo alla coppia username e password un token, hardware o software, come questo SecurID di RSA.

screenshot.2

Questo significa che se noi abbiamo questo token, siamo gli unici che possiamo accedere al servizio. Possiamo farlo perché un attaccante può ancora rubare o indovinare la nostra password dal database del social network, ma dovrebbe anche rubarci dalla tasca il nostro token. E questo è improbabile.

Come detto prima, né Twitter né LinkedIn offrono un’autenticazione a due fattori. Di sicuro ci stanno lavorando, ma ci vorrà un po’ di tempo prima che possano renderla disponibile ai propri utenti.

Tuttavia altri social network e servizi cloud già oggi offrono questo tipo di autenticazione. Stiamo parlando di Facebook, Google e Dropbox.

Vediamo come impostare l’autenticazione a due fattori su questi servizi, e rendere i nostri account più sicuri.

Facebook

L’autenticazione a due fattori su Facebook funziona in due modalità. Può sia inviare un SMS al vostro cellulare, contenente il token da utilizzare nella fase di login, sia generare lo stesso token dall’applicazione di Facebook del vostro smartphone. Prima però è necessario abilitare la funzionalità. Vediamo come.

Prima di tutto dovete andare nel tab Sicurezza del menu Impostazioni Account, e troverete questa opzione

screenshot.3

Vi sarà chiesto di inserire e validare il vostro numero di cellulare ed è fatta! Da questo momento ogni volta che farete login da un nuovo browser, o se avrete cancellato i cookie dal vostro solito browser, Facebook vi chiederà di inserire il codice inviato tramite SMS al vostro cellulare.

In alternativa, se avete uno smartphone con l’app di Facebook, potrete ottenere un codice valido tramite l’opzione Generatore di Codici presente nell’app stessa (funziona molto bene sia su Android che su iOS).

Google

La funzionalità di autenticazione a due fattori di Google funziona in modo molto simile a quella di Facebook.

Per attivarla dovete andare nella pagina delle Impostazioni del vostro Google Account, tab Sicurezza e abilitare la Verifica in due passaggi

screenshot.4

Vi sarà richiesto di inserire il vostro numero di cellulare e confermarlo

screenshot.5

Fatto questo potrete accedere al vostro Google Account solo inserendo il codice inviato via SMS al vostro cellulare.

Questa è la modalità principale, analogamente a Facebook anche Google mette a disposizione un’app da scaricare sullo smartphone, la Google Authenticator.

Si può scaricare da iTunes o Play Store, è gratis ed è molto semplice da configurare, poiché per attivarla dovete solo inquadrare il QR Code che Google vi mostra nella pagina di attivazione dell’app

screenshot.8

La caratteristica più interessante di Google Authenticator è che non è legata ad un singolo account, è possibile infatti utilizzarla per più Google Account, e metterli in sicurezza tutti in una sola volta. Questo perché l’app genererà un codice per ognuno degli account a cui è associata.

La cosa ancora più interessante è che questo servizio non è valido solo per Google, ma può essere utilizzato come framework per fornire un’autenticazione a due fattori anche da altri servizi cloud, come ad esempio Dropbox.

Dropbox

Per mettere in sicurezza il vostro account Dropbox con l’autenticazione a due fattori, fornita da Google, dovete andare nel tab Security del menu Settings, ed abilitare la two-step verification

screenshot.10

Vi sarà quindi chiesto di inserire un numero di telefono, dove mandare l’SMS col codice, o in alternativa utilizzare un’app per generare il codice di accesso.

screenshot.12

Tutto qui! Ora aprendo l’app Google Authenticator avrete questa situazione

screenshot.13

Conclusioni

Abbiamo visto un po’ più in dettaglio cos’è l’autenticazione e due fattori, perché è importante averla disponibile sui servizi che si utilizzano e, cosa più importante, come è facile attivarla ed usarla.

Sfortunatamente non tutti i social network che usiamo quotidianamente offrono questa funzionalità, ma per stare più sicuri è importante attivarla ogni volta che ci viene offerta.

Può essere noioso inserire ogni volta un codice, ma questo piccolo passaggio può realmente migliorare la nostra sicurezza online.

Aggiornamento: visto che anche LinkedIn e Twitter hanno abilitato la funzionalità di autenticazione a due fattori, ho scritto una guida per abilitarla.

Federico Filacchione
pubblicato originariamente come “Two Factor Authentication – Why it is important and How to use it” su ClubHACK Magazine numero 38.

Autenticazione a due fattori – Articolo su ClubHACK Magazine

chmag_cover Continua la mia collaborazione con la prima rivista di hacking indiana, che nel numero appena uscito pubblica un mio nuovo articolo-tutorial nella sempre simpatica sezione Mom’s Guide.

L’articolo, intitolato Two Factor Authentication – Why it is important and How to use it analizza un po’ i recenti attacchi a Twitter e Linkedin (di cui avevo già parlato qui) e spiega come su altri servizi e social newtork sia possibile abilitare l’autenticazione a due fattori. In modo molto semplice ed immediato, e quindi mettere un po’ più di sicurezza nel proprio account.

Come al solito tra qualche giorno troverete qui la traduzione italiana dell’articolo, nel frattempo potete leggerlo sul sito di ClubHACK Magazine o, ancora meglio, scaricare l’ultimo numero della rivista in PDF!

Giocare sporco: anatomia di un attacco DDoS tramite game server

Trovate qui la traduzione italiana del mio articolo pubblicato sul numero 29 di ClubHACK Magazine.

Gli attacchi di tipo Distributed Denial of Service (DDoS) sono l’arma più comune e facile da utilizzare per creare grossi problemi e danni molto visibili ad un determinato bersaglio, e con uno sforzo molto limitato.

Questo attacco è senza dubbio quello più utilizzato dai gruppi di hacktivist, poiché necessita di un tool molto comune (come LOIC), e si basa sulla rabbia di centinaia, se non migliaia, di persone disposte a fare qualcosa di semplice. La sua efficacia deriva anche dal fatto che è un attacco molto complesso da evitare, questo perché gli attaccanti dispongono di una banda di rete enorme, e c’è poco altro da fare se non chiudere i firewall per evitare danni peggiori ai server interni. In ogni caso l’attaccante vince, e i servizi sono giù per un po’ di tempo.

Questo è l’unico lato positivo della storia, l’attacco non può durare a lungo e il “Tango Down“, se correttamente individuato e mitigato con una chiusura completa, durerà pochi minuti, lasciando il tempo a chi l’ha sferrato di bullarsi con il resto del mondo via Twitter.

Devo ammettere che spesso si assiste a società in grado di farsi un attacco DDoS da sole,  pubblicando servizi su server mediocri e con un’architettura di rete ridicola. Così non appena il sito va online tutto viene giù alla prima milionata di richieste della homepage. E questo causa molti più problemi che non un gruppo di hacktivist, non credete? 🙂

Tornando all’argomento dell’articolo, questo è il modo classico di eseguire un attacco DDoS, ci sono però altri metodi, più interessanti da analizzare e più raffinati, per creare questo tipo di disservizi.

Lavorando sul campo svolgo spesso analisi post-mortem su attacchi di vario tipo, e recentemente ho analizzato questa modalità di eseguire un DDoS tramite server di gioco online. Vediamo insieme come.

Partiamo dal dire che l’attacco non è eseguito direttamente dall’attaccante, ma usando, come fossero una botnet, un numero elevato di game server custom (cioè gestiti non dalla casa produttrice del gioco, ma da gruppi di fan, spesso illegalmente), sparsi per il globo. Sono loro che attaccheranno il bersaglio.

La Figura 1 mostra come l’attacco è eseguito:

Game server DDoS Attack Flood Scheme

Schema del flood DDoS tramite game server

La prima cosa che colpisce è che, tenendo presente che i game server custom possono essere dislocati ovunque nel mondo e che nascono e muoiono in continuazione, è praticamente impossibile identificare il reale attaccante.

Questo tipo di attacchi non è molto conosciuto, né molto eseguito, ma è stato individuato e descritto per la prima volta lo scorso anno.

Ma perché succede una cosa simile?
Succede perché questi server di gioco sono vulnerabili ad un attacco specifico. L’attacco viene eseguito chiedendo, con un pacchetto fatto ad hoc, lo status di gioco del server. Questa è una richiesta UDP molto piccola, ma se fatta spoofando l’IP sorgente del richiedente, il server risponde a quell’IP con un’enorme quantità di informazioni.

Sempre lo scorso anno uno degli sviluppatori di questi server custom ha pubblicato questa vulnerabilità, e contestualmente rilasciato una patch per risolvere il problema. Naturalmente in molti casi questi server sono del tutto illegali, il software è scaricato chissà da dove, e sono attivi in molte nazioni, comprese Russia e Cina. Non ci si può quindi aspettare che gli amministratori siano molto attenti ad applicare le ultime patch, o che rispondano a qualunque tipo di richiesta. Molto probabilmente chiuderanno bottega e ne attiveranno uno nuovo da un’altra parte.

Avendo modo di lavorare direttamente al caso, posso pubblicare i dettagli dell’attacco, analizzando il traffico reale. Come potete facilmente immaginare, non pubblicherò il bersaglio dell’attacco, né i nomi o gli IP dei game server coinvolti. Questo è solo un case study per capire come funziona questo tipo di performance.

La prima cosa da notare è la tipologia dei pacchetti. Come detto è tutto traffico UDP, di dimensione variabile, inviati alla porta 21 del server oggetto dell’attacco.

Fusso UDP di risposta

Fusso UDP di risposta

Guardando il dettaglio di un paio di flussi, possiamo vedere che il pacchetto è uno statusResponse da un server custom di Call of Duty.

CoD statusResponse

CoD statusResponse 2

Potrei continuare a mettere screenshot per giorni, i server coinvolti nell’attacco erano centinaia, e ognuno aveva inviato un’enorme quantità di risposte. Immagino che i giocatori non fossero molto contenti dei lag nel gioco durante l’attacco!

Call of Duty non è stato l’unico gioco utilizzato, ma erano coinvolti anche dei server Quake 3.

Quake3 game server resposne

E anche in questo caso abbiamo un pacchetto statusResponse.

Quake 3 response

Penso che sarete d’accordo con me nel ritenere questo attacco molto più raffinato e ordinato, rispetto ad un classico DDoS eseguito con LOIC.

Vi domanderete ora come fare ad evitare questo tipo di attacchi.
C’è poco da fare purtroppo.

Mettere in blacklist i game server è una tattica poco efficace, loro e i loro IP vanno e vengono ogni giorno, quindi non servirebbe a molto. Proseguendo con il patching questo tipo di vulnerabilità potrebbe andare a morire, ma ci saranno sempre server vulnerabili in giro, spesso da certe nazioni, pronti ad essere usati per sferrare questi attacchi.

Come al solito la migliore difesa monitorare costantemente cosa accade sulla vostra rete. Solo in questo caso è possibile rispondere rapidamente e provare a mitigare l’attacco, sia tramite blacklist temporanee, sia tramite chiusure dei firewall.

Ma, come al solito, se non vedete nulla non saprete mai cosa sta succedendo.

Federico Filacchione
pubblicato originariamente come “Playing Bad Games: Anatomy of a Game-Server DDoS Attack” su ClubHACK Magazine numero 29.

Anatomia di un attacco via game server – Articolo su ClubHACK Magazine

ClubHack Magazione June 2012

Tra i tanti impegni lavorativi che mi allontanano un po’ dal blog c’è per fortuna tempo per scrivere qualcosa per gli amici della prima rivista indiana di haking.

L’articolo, intitolato Playing Bad Games: Anatomy of a Game-Server DDoS Attack, analizza la modalità di esecuzione di questo insolito attacco, che sta iniziando ad apparire in giro per la rete.

Potete leggere l’articolo in originale qui, scaricare il pdf della rivista (ci sono molte altre cose interessanti) leggere la traduzione italiana su questo blog!

Bye!

Una panoramica sulla Cloud Forensics

Trovate qui la traduzione italiana del mio articolo pubblicato sul numero 4 di Hakin9 Extra.

Introduzione

Il cloud computing è senza dubbio una delle grandi innovazioni dei nostri tempi. Introduce un nuovo modo per implementare architetture complesse che solo dieci anni fa sarebbero costate centinaia (se non migliaia) di volte tanto.

Questo è avvenuto sia per l’introduzione della virtualizzazione delle risorse, dovuta all’elevato potenziale dei moderni computer, sia per una nuova più scalabile e flessibile organizzazione dei servizi offerti, orientati più verso un modello di business orientato ai Servizi stessi e non al Software.

Tutto ciò, insieme ad un nuovo modo di usare le applicazioni (tramite un browser, e non con il vecchio paradigma client-server), ha introdotto ciò che il NIST descrive come:

Un modello per abilitare un accesso pratico, on-demand via rete ad un gruppo di risorse condivise e configurabili (ad es. reti, server, storage, applicazioni e servizi), che può essere rilasciato rapidamente, con una minima gestione o interazione col provider.

Ci sono tuttavia dei problemi portati da queste innovazioni. Il principale è che tutti i modelli tradizionali, non ideati in tempi di cloud, devono essere ripensati.

Uno di questi modelli è appunto la computer forensic. Come fare questo tipo di attività su sistemi in the cloud, e come interagire correttamente con i provider di servizi cloud.

In questo articolo cercheremo di fare una panoramica su quali sono le nuove sfide che un professionista della forensic deve superare per fare bene il proprio lavoro, e cosa chiunque usi un servizio cloud, o ne gestisca uno, deve tenere in mente per evitare questo tipo di problemi nel futuro.

Cosa è cambiato?

Perché ci sono queste nuove sfide? Vediamo cosa è cambiato nel cloud.

Il modello della forensic tradizionale è basato su:

  • Raccogliere le evidenze on-site.
  • Rispettare la legge, e garantire la catena di custodia.
  • Analizzare i dati per trovare evidenze, eindividuare le prove.

Questo, nel cloud, cambia completamente.

Non esiste un sito fisico. Già, avete letto bene. “Nel cloud” non c’è un posto dove si può andare e sequestrare un pc o un server per analizzarlo in seguito. Nel cloud ci sono numerosi CED che ospitano contemporaneamente i dati che state cercando.
Questo è veramente un incubo, anche perché siamo al primo passo e già sembra un ostacolo insormontabile.
Considerato che l’architettura cloud consiste nella condivisione dei dati, risorse e servizi su diversi CED, infrastrutture virtualizzate e servizi aperti a chiunque, non c’è modo di essere certi che i dati necessari siano stati raccolti completamente.

Non c’è una singola legge. Garantire la catena di custodia significa che bisogna rispettare leggi specifiche, di una nazione specifica (in genere la vostra). Ma nella prospettiva del cloud non c’è una singola nazione. Una rete diffusa di centri di elaborazione dati significa una rete diffusa di giurisdizioni. E questo significa che può essere molto complesso (in alcuni casi, volutamente, impossibile) interagire con nazioni che non hanno leggi moderne sulla criminalità informatica.

Non c’è un singolo provider. Analizzare i dati significa che tutto quello che è stato raccolto deve essere coerente e può essere usato come prova. Ma se i servizi cloud che state analizzando sono relativi ad un’altra infrastruttura, potete garantire di non aver perso nulla? E chi vi può fornire ulteriore assistenza?
Questo è un problema reale già ora, facciamo un esempio. C’è un servizio molto noto che permette di sincronizzare e condividere file su diversi computer e dispositivi. Basta inviare, o meglio “droppare” un file in una cartella, o un “box”, e sono disponibili ovunque. Ora questo servizio di cloud utilizza risorse di un altro servizio sempre di cloud, di più altro livello, gestito da una nota libreria online di una “femmina cavallerizza”… La domanda ora è chi comanda? Chi realmente gestisce questo sistema? Difficile rispondere.
La risposta è che, dopo aver affrontato diverse giurisdizioni, la sfida qui è capire cosa quei dati significano, e cosa le due entità coinvolte sanno di quei dati e possono darvi. E questo può essere molto difficile.

Quindi è tutto così complicato? No, non tutto.

Poiché il modello cloud è una grande opportunità per tutti, può essere una grande opportunità anche per i professionisti della forensic. Questo però significa che anche i provider di servizi cloud devono essere pronti a confrontare i loro sistemi con le nuove sfide presentate dal nuovo modello.

Molti provider cloud non sanno cosa dire quando è il momento di parlare di cloud forensics, questo perchè fondamentalmente loro non conoscono il problema. Non se ne occupano perché il modello cloud è troppo veloce, scalabile e ampio per avere a che fare con questo tipo di problemi, strettamente legati al modello passato.

Ma questo è sbagliato in molti sensi. È sbagliato per il cliente, perché se succede qualcosa (e qualcosa prima o poi succederà) vi ritroverete in un gran guaio. È inoltre ancora più sbagliato per il cloud provider stesso, visto che è lui il responsabile di quello che succede sui suoi sistemi e sui servizi che offre. Questo quando le cose vanno bene, certo, ma ancora di più quando le cose andranno male.

Il cybercrime non sta a guardare

Finora abbiamo parlato di servizi regolare. Ma come è facile immaginare, il modello cloud non è un modo efficiente di fare business solo per le aziende normali, è un ottimo modello anche per i criminali.

Questo crea una notevole minaccia per chiunque gestisca un servizio cloud. E la minaccia è doppia.

Il primo problema è che potreste scoprire che il vostro servizio (lecito) è usato da cybercriminali per fare cose illegali. Ad esempio ci sono numerosi riscontri sul fato che qualche servizio online di malware scan è usato da chi scrive il malware per dimostrare la bontà del loro prodotto. È come se dicessero: vedete? Nessuno lo riconosce, comprate il mio malware!
Questo è un usonon proprio lecito di uno strumento perfettamente legale, ma magari tra qualche tempo i tizi vestiti di blu potrebbero fare un salto da voi e chiedervi “cosa sta succedendo?”.

L’altra minaccia è che anche i criminali stanno attivando i loro servizi nel cloud. Oggigiorno ci sono una quantità enorme di toolkit per produrre “malware fatto in casa”, e si possono acquistare per pochi dollari. La cosa interessante è che questi prodotti vengono venduti, supporto incluso (sì, c’è anche un helpdesk per usarli), su infrastrutture praticamente uguali a al modello diffuso di software-as-a-service (SaaS).
Ma quando un sistema come questo viene bloccato e, magari, sequestrato, come fa un professionista della computer forensic a capire cosa stava succedendo lì sopra? Come può estrarre i dati necessari a provare il crimine?

Questi sono casi reali, come reali sono le sfide che pongono.
E poi, pensateci, non è anche una botnet un “servizio cloud”? 🙂

Opportunità

L’abbiamo detto prima e lo diciamo ancora: siate pronti. Questo è un problema molto importante, e non deve essere sottovalutato.

Questo significa anche che molti professionisti della computer forensic possono realmente aiutare a implementare strumenti e strategie di cloud forensics nei nuovi servizi. Poiché questo è un problema che ogni cloud provider dovrà affrontare prima o poi, questa è un’eccellente opportunità per fornire supporto a definire una strategia della cloud forensics.

Il paradigma cloud è talmente versatile che è possibile, e infatti ci sono già dei progetti in tal senso, sviluppare una piattaforma di forensic-as-a-cloud-service, fatta specificatamente per il cloud.

Se siete un provider, può essere una grande opportunità anche per voi, perché definire una strategia e un’architettura per la cloud forensics significa implementare quegli strumenti e quelle procedure nei vostri servizi cloud, e questo è quello che va fatto ora. Questo significa sia una raccolta di dati proattiva, basata su strumenti di computer forensic (sì, anche quelli standard attuali!), sia una dettagliata procedura di incident response che includa la forensic, sia infine un addestramento per il vostro staff al fine di fargli comprendere meglio i rischi del nuovo modello (questo passo, sinceramente, è valido in ogni caso).

Tutto ciò significa anche comprendere le leggi delle nazioni dove sono i vostri CED. E questo è importante non solo per essere pronti in caso di incidente, ma anche per evitare possibili procedimenti legali nel caso le leggi siano troppo stringenti.

Negli Stati Uniti, ad esempio, molti tribunali e molti giudici stanno chiedendo sempre di più prove e dati provenienti dai sistemi informatici. E chiedono come le prove sono state raccolte, come sono state conservate ed analizzate.

E se siete voi l’azienda alla sbarra, e non sapete rispondere alla domande del giudice, potreste incorrere in sanzioni, o peggio.

Per concludere: non aspettate il vostro turno per finire nei guai, preparatevi.

Federico Filacchione
pubblicato originariamente come “An Overview on Cloud Forensics” su Hakin9 Extra numero 4/12© Software Press, Poland.